Dopo
"Poi il tempo è passato, pian piano mi sono sentita riavere, ho cominciato a vivere di nuovo, sì ho ricominciato anche a prendermela e a preoccuparmi per tutte quelle cose che avevo capito non essere poi in fondo così importanti. La quotidianità mi aveva agguantato ancora con i suoi piccoli, grandi, infiniti problemi..." di Laura Scarpitti
La strada che scende da viale Volta verso viale dei Mille è tranquilla e silenziosa come sempre, poca gente, qualche raro autobus. È una bella giornata di fine settembre, sono con un’amica che mi ha accompagnato a rifare la mammografia, e vorrei invece essere sola. Verso di noi sta arrivando mio marito, sorride, ma…se ha lasciato il lavoro e sta venendo qui significa che non era tranquillo, che il fatto di essere stata richiamata per un ulteriore controllo non l’ha convinto.
Vorrei sorridergli anch’io, rassicurarlo, dirgli: ma di che ti preoccupi? Va tutto bene.
Ma non è così.
Qualcosa c’è, qualcosa in quella piccola lastra fa capire che nel mio seno destro non tutto è regolare: piccolissimi punti chiari sullo sfondo nero, come stelle in una notte tranquilla, indicano invece che non è tutto a posto. I medici si consultano, sono in tre mi sembra, non si pronunciano, dovrò fare un altro tipo di indagine, mi dicono; ma i loro sguardi non mentono. E inizia la grande paura. C’è però la mia amica, c’è mio marito, non posso abbandonarmi alla paura, non posso darle retta, cerco di sorridere, andiamo al bar e intanto tutti e tre diciamo che “non è detto che sia…” che “bisogna comunque fare un altro esame…” che “è inutile spaventarsi senza sapere di preciso…”
Stiamo tutti e tre cercando di alleggerire la situazione, ma tutti e tre stiamo pensando la stessa cosa: cancro. E mentre parlavo pensavo che sarebbe stato contento Pirandello di questo nostro “gioco delle parti”. Guarda un po’ cosa mi veniva in mente!
Avrei voluto essere lontana da tutto e da tutti, poter pensare, piangere per conto mio senza avere il timore di dare fastidio, potermi leccare la ferita raggomitolata da qualche parte come un gatto. E invece ero lì a parlare, a cercare di fare quella che non è poi così preoccupata. Una fatica terribile!
Altro controllo, conferma di ciò che si temeva, e la vita viene buttata all’aria: azzeccata quella pubblicità! Tutto ciò che prima era la quotidianità, con il suo bagaglio di cose belle e meno belle, di sorrisi e arrabbiature, di ricordi e di progetti, di cose fatte e cose da fare… niente ha più un senso; la bomba è scoppiata e bisogna cercare di salvare il salvabile.
Ha così inizio quell’iter che milioni di persone hanno vissuto, che in tanti stanno affrontando in questo momento, che io avevo toccato con mano dall’età di cinque anni, da quando cioè fu colpita dal cancro mia nonna, e che ha scandito periodicamente tutta la mia vita attraverso tante persone care, fino alle “botte” più grosse, mia madre e mio padre, che il cancro si è portato via, prima l’una poi l’altro, nel giro di pochi mesi. Quanta sofferenza!
Ed ora toccava a me.
Ma a me è andata meglio. Dopo le visite, l’attesa, l’intervento, le risposte della biopsia, la ricostruzione del seno… i medici mi dissero che potevo considerarmi guarita. Il male non era stato troppo aggressivo, non ho avuto bisogno di nessun tipo di cura, nessuna chemio che mi spaventava e mi spaventa ancora. Ero stata fortunata. Era finita. Non riuscivo a crederci, avevo paura di crederci, avevo paura che i medici sbagliassero, che avessero sottovalutato il mio caso. Paura paura paura!
Poi il tempo è passato, pian piano mi sono sentita riavere, ho cominciato a vivere di nuovo, sì ho ricominciato anche a prendermela e a preoccuparmi per tutte quelle cose che avevo capito non essere poi in fondo così importanti. La quotidianità mi aveva agguantato ancora con i suoi piccoli, grandi, infiniti problemi, quelli di cui si può discutere a tavola e anche litigare, di cui si può sorridere, sui quali si può polemizzare, trovare un’intesa… quelli che non sono il cancro.
Mi sentivo rassicurata dai controlli semestrali, dalle mammografie, mi dicevo che, se si fosse evidenziato ancora qualcosa, sei mesi non erano tanti per poter intervenire di nuovo, per poter di nuovo battere sul tempo la malattia.
Così ho cominciato a fare cose nuove, che non avevo mai fatto, che il lavoro e tutto il resto non mi avevano dato modo di avvicinare: sono andata in piscina ed io, che non avevo mai saputo nuotare, se non qualche sguazzatina tipo papera disastrata, ho imparato. Mi è parso di nascere di nuovo, stare nell’acqua a nuotare, sì nuotare dove l’acqua è alta e non aver paura! Può sembrare una banalità, invece era una conquista, e alla mia tenera età… Ero io che vincevo di nuovo, che superavo un ostacolo; che bello!
E, grazie a mio marito, a questo mio marito che quando eravamo giovani fidanzati non ha mai voluto saperne di ballare, bene, grazie a lui che mi ha spinto, ci siamo iscritti ad una scuola di ballo, e abbiamo scoperto un mondo per noi fino ad allora impensabile, fatto di gente che anche diverse volte a settimana va a ballare in qualche circolino periferico, con orchestrine più o meno scalcinate, su musiche che erano le nostre di quando eravamo ragazzi. Che roba! Le prime volte mi vergognavo come un ladra, ma poi mi sono lasciata andare e i sono divertita. Erano passati quasi tre anni, mi sentivo forte, sicura.
Poi qualcosa è cambiato.
Una lontana cugina che, anni prima, era stata aggredita dal mio stesso male, era di nuovo malata.
I medici sono intervenuti ancora, con le solite cure che tutti conosciamo; la situazione sembrava stabilizzarsi, migliorare, sembrava superata di nuovo e tutti stavamo tirando un sospiro di sollievo.
Ma una mattina una telefonata mi ha fatto precipitare nel baratro: era morta. Tutto era cambiato in pochissimo tempo, il male si era fatto aggressivo e non c’era stato più niente da fare.
Il dolore per lei e la sua famiglia, l’angoscia e la paura ancora per me.
E la mia bella sicurezza e andata a farsi benedire!
Di più. Al controllo che feci dopo poco tempo seppi che ormai per me, trascorsi tre anni, il protocollo non prevedeva più una visita ogni sei mesi, diventava annuale. Pensavo avessero sbagliato, chiesi, mi informai; no, era proprio cosi. Mi sentii abbandonata, lasciata a me stessa. Un anno tra un controllo e l’altro è un’eternità per chi ha subito il cancro; in un anno possono succedere tante di quelle cose, mi dicevo, e il tempo diventava un nemico.
Ero confusa, agitata, terrorizzata.
E fu cosi che approdati al servizio di psico-oncologia della Lilt a Villa delle rose.
Pensavo ad un unico incontro, nel quale avrei detto, sempre se ci fossi riuscita, qualcosa delle mie nuove angosce e sarebbe finita lì.
Non ero convinta, non ne avevo voglia, non ho mai saputo parlare dei miei problemi, anche con le mie amiche. Da sempre le difficoltà le ho affrontate e risolte o, quanto meno, abbastanza superate, da sola; potevo parlarne solo quando ero uscita dal caos dei pensieri, un po’ perché non ho mai trovato giusto infliggere alle persone, che già hanno i propri problemi (chi non ne ha?) anche i miei, un po’ per quel pudore dei sentimenti su cui si è basata tutto la mia educazione. Sono più un’ascoltatrice delle storie altrui, che non una confidente delle mie.
Ma c’era dentro di me come una necessità che si faceva strada, pur non rendendomene pienamente conto.
Intuivo che da sola non ce la facevo più.
La psicologa che mi accolse fu gentile, sorridente, parlammo di tutto un po’, non ricordo bene, so che rifiutai di partecipare a degli incontri di gruppo, non me la sentivo proprio, dissi che preferivo l’incontro a due: io e lei.
Quando quel primo colloquio finì, la dottoressa mi riaccompagnò all’accettazione e, un po’ chiedendolo un po’ affermandolo, mi fissò un nuovo appuntamento.
Passarono i mesi, gli incontri continuarono; piano piano quel groviglio di sensazioni, sentimenti, angosce si andava sbrogliando, prendeva forme diverse, si alleggeriva.
E fu la volta dell’inserimento in un gruppo: Colore e collage. Non seppi dire di no alla dottoressa, lei ci credeva ed io ho sempre avuto un forte senso del dovere: ho ubbidito come una scolaretta alla propria insegnante. All’inizio il solito timore di non essere all’altezza (disegnare, poi!), il senso di inadeguatezza che mi trascino da sempre, poi la rivelazione.
Si disegnava, si, ma andava bene qualsiasi scarabocchio, alla dottoressa che ci seguiva non interessavano opere d’arte, nessuno li giudicava, si strappavano fogli di riviste per comporre collage come bambine sui banchi di scuola e su quei nostri lavori si parlava, si condivideva, tutte insieme, donne fino ad allora sconosciute le une alle altre ma unite dagli stessi bisogni, dalle stesse emozioni, dagli stessi problemi. La malattia ci aveva rese amiche, amiche vere.
Qualcuna piangeva, raccontando, ed io stavo male per il suo dolore e per il suo pianto, per la quantità di sofferenze che riusciamo a portarci dentro. E un giorno, commentando un mio disegno e un mio scritto, la voce si è incrinata anche a me ed io che sono una per cui il pianto è una cosa privatissima, l’ho lasciato venir fuori, perchè avevo capito che sarebbe caduto su persone che non giudicavano e che sapevano. Il pianto e il riso si sono alternati, storie di vita sepolte, ma che facevano ancora male, sono venute fuori e anch’io mi sono accorta che potevo parlare, che stavo male delle loro sofferenze ma che potevamo anche ridere, tutte insieme, alla battuta di una di noi che stava piangendo due minuti prima. La nostra singola vita era diventata anche vita delle altre. E i miei 61 anni li ho festeggiati prima di tutto con loro, con strudel e caffè portato da casa; poi, come sempre, ci sedemmo intorno al tavolo per l’incontro di quel 5 marzo 2009.
Intanto proseguivano gli incontri con la mia psicologa, ed io, che all’inizio, pensavo di risolvere tutto con uno o due incontri, mi sono invece ritrovata periodicamente a parlare con lei tante altre volte di cose che non erano più solo la malattia, ma che erano stati per me problemi forse ancora più gravi, che conoscevo benissimo ma che mi pesavano ancora tanto sul cuore e che certo nessuno poteva risolvermi, perché ormai non c’era più la possibilità di una soluzione, ma che per la prima volta stavo quasi consegnando ad un’altra persona che non ero io. E fu a lei che ho fatto immediatamente ricorso quando, ai settembre 2009, mi sono sentita sopraffatta, annientata da un problema familiare che mi era arrivato inaspettato come una bastonata tra capo e collo. Fu pronta a rispondere al mio appello, anche per telefono sentì la mia angoscia. Parlai con lei, mi confidai.
Certo la situazione che si era creata rimaneva tale, ma quel giorno uscii da Villa delle rose un pochino più leggera, sapevo che potevo affrontare anche quella. A Colore e collage seguì il gruppo di rilassamento, utilissimo anche questo e anche qui ho imparato.
Anni prima avevo fatto yoga, mi piaceva ma durante quelle lezioni non ero mai riuscita a rilassarmi davvero: standomene sdraiata pensavo a cosa avrei dovuto fare per cena appena ritornata a casa oppure a quali argomenti avrei dovuto affrontare il giorno dopo con i miei alunni. Niente, la mia mente andava andava, lavorava anche quando avrebbe dovuto riposare.
Ma la voce della giovane dottoressa e le altre donne stese accanto a me hanno saputo guidarmi, ho imparato a rilassarmi e mentre tornavo a casa in macchina canticchiavo.
Quando mi capitava di non riuscire a dormire la notte, nel letto ripetevo gli esercizi di respirazione, di rilassamento muscolare e spesso la calma prendeva il posto della mia solita ansia. Grazie anche a loro.
Anche nel gruppo di scrittura creativa mi sono trovata bene. Rilassamento per iniziare, poi a volte la richiesta da parte della psicoterapeuta di visualizzare con la mente una foto di un certo periodo della nostra vita o l’ascolto di una musica o altre situazioni tipo ci portavano indietro nel tempo.
Seguiva la scrittura. Leggevamo infine qualche brano e se ne parlava; le nostre vite si incrociavano di nuovo e tante situazioni che ognuna di noi pensava essere accadute solo a lei, e per le quali aveva sofferto, si scopriva essere le stesse o simili a quelle delle altre donne del gruppo.
Non ho mai condiviso tanto della mia vita quanto in questo lungo periodo trascorso con le psicologhe della Lilt e con le altre donne che ho incontrato nei vari gruppi. Con alcune si sono allacciati rapporti più stretti, ci vediamo ogni tanto o, se questo non è possibile per questioni di lavoro, famiglia, lontananza, ci telefoniamo o ci scriviamo. Non ci siamo perse. Ma anche delle altre con le quali ci siamo salutate alla fine dei corsi, mi rimane un ricordo bello, leggero, indistruttibile.
Eravamo tutte lì con il nostro fardello, con le nostre vite più o meno spezzate, alcune donne ne avevano passate e superate tante, molte più di me, ma che grinta, che forza nell’affrontare le avversità… C’è da imparare, solo da imparare. Di una di loro, una giovane signora, mamma di un bambino ancora piccolo, credo che porterò sempre nel cuore e nella mente la sua risata coinvolgente, comunicativa, la sua voglia di vivere assoluta. Veniva al nostro incontro settimanale dopo aver fatto la chemio, a volte un po’ stanca ma sempre disposta ai superare tutto e non c’è da imparare?
L’ultimo gruppo a cui ho partecipato e stato quello di attività teatrale: altra scommessa con me stessa.
Qui abbiamo fatto di tutto e di più, come suol dirsi. Abbiamo giocato, si ci siamo trovate a fare alcuni giochi che facevamo da bambine. Anche questo, visto da fuori, può sembrare banale, ma non lo è stato affatto, è stato liberatorio, sono tornati alla mente ricordi belli di un’età che i tanti problemi della vita avevano sepolto nel fondo della memoria. Donne di una certa età che si sono rimesse fare “le belle statuine” o “un due tre stella”. E dove mai avremmo potuto farlo senza essere giudicate folli, se non lì, in quel contesto e quando mai ci sarebbe venuto in niente di fare una cosa simile? Abbiamo ballato improvvisando sulle musiche che la dottoressa ci metteva, libere come l’aria, abbiamo scritto delle scenette e ce le siamo rappresentate ridendo come matte, abbiamo cantato. Devo dire che in questo caso ho subito la richiesta: io sono stonata, non ho mai, dico mai, cantato in presenza di qualcuno (non canto neppure sotto lo doccia, come spesso si vede nei film americani!). Beh, lì ho cantato, ce l’ho fatta. Un’altra conquista.
Sono sempre stata bene con tutte le psicoterapeute che mi hanno seguito in questo cammino, ho apprezzato la loro professionalità, la capacità di starci vicino senza pesare, di dirci quelle parole che forse senza rendercene conto volevamo sentire. Donne che aiutano altre donne, cosa c’è di più naturale e di più bello?
Il mio percorso psicologico a Villa delle rose è terminato.
Posso dire di essere diventata un’altra persona? Sono, ovviamente, la stessa Laura di sempre, che viaggia con le sue paure e la sua ansia, quelle che la vita le ha riversato addosso o che lei non è stata in grado di affrontare, sarebbe stato impensabile un cambiamento radicale, ma ho imparato tante cose, cose che spesso dimentico presa d’assalto da un nuovo problema contingente, ma sono in me e, se mi fermo un attimo, tornano a galla e mi vengono in aiuto.
Certo, credo che ognuna di noi quando si avvicina ad uno psicologo, ad un medico e fa delle domande sulla malattia o sulla propria anima sofferente vorrebbe avere in risposta certezze: tranquilla, signora, la malattia non si ripresenterà, ormai è tutto a posto. Oppure risposte comunque risolutive al proprio problema, a quel problema che magari in tutta la nostra vita non siamo mai neppure riuscite a guardare in faccia.
Lo sappiamo bene che non è così, sarebbe meraviglioso ma non è di questo mondo.
Questo non ce lo possono dare neppure a Villa delle rose.
Dunque era la stessa Laura che usciva da quegli incontri? Era la stessa, ma anche qualcosa di più, era una donna che aveva imparato a non sentirsi sola, che aveva imparato a parlare, ad avere fiducia, a riflettere in modo diverso sui problemi quotidiani.
Era più serena, più leggera. E non è poco!