Cappuccino e brioches
"Anche quel mercoledì 12 ottobre ero seduta al tavolo di un bar di viale dei Mille, davanti ad un cappuccino e cornetto, con mio marito ed un’amica, ma nessuno di noi era allegro, per niente, io meno di tutti. Non ne avevo motivo, mi sforzavo di non apparire preoccupata e spaventata, ma lo ero..." di Laura Scarpitti
Io adoro il cappuccino con la brioche, meglio se integrale al miele o alla cioccolata, forse perché è un piacere che mi posso concedere con parsimonia: l’insieme mi resta un po’ difficile da digerire, purtroppo! Ma quando posso mi piace prenderli seduta ad un tavolino, meglio se con mio marito o con un’amica, facendo quattro chiacchiere in libertà. Ma mi va bene anche da sola: una specie di rito simpatico e tranquillo che interrompe il via vai della vita, un fermo-immagine.
Anche quel mercoledì 12 ottobre ero seduta al tavolo di un bar di viale dei Mille, davanti ad un cappuccino e cornetto, con mio marito ed un’amica, ma nessuno di noi era allegro, per niente, io meno di tutti. Non ne avevo motivo, mi sforzavo di non apparire preoccupata e spaventata, ma lo ero.
Poco prima, al Cspo di Viale Volta avevo scoperto che molto probabilmente nel mio seno destro abitava un cancro: microcalcificazioni molto sospette, dall’immagine quasi beffarda di un cielo stellato. Questa volta il fermo-immagine era sul camice bianco di una dottoressa dall’aria piuttosto scostante che, almeno in parte, mi riteneva responsabile visto che per troppi anni avevo fatto uso della terapia ormonale sostitutiva, come se fosse stata una mia bizzarria e non una necessità. Anche questo atteggiamento mi aveva fatto male.
E pensare che ero andata convinta e sicura che bastasse ripetere la mammografia, forse la prima semplicemente non andava bene. In genere io tendo a vedere nero, quel giorno no, ero fiduciosa. Invece il cielo era nero!
Mi richiamarono alcuni giorni dopo e fu definitivamente chiaro che il nemico c’era e che avrei dovuto subire un intervento. Quel giorno io e mio marito non ci fermammo al bar. Impauriti e silenziosi avevamo solo fretta di tornarcene a casa, l’unico posto in cui nessuno avrebbe potuto farci più del male.
Cominciò la trafila di richieste mediche, di ricerca di una visita oncologica e di una struttura ospedaliera dove effettuare l’intervento, quell’iter doloroso che, come me in quel momento, giornalmente affrontano tante donne.
Avevo paura. Non paura di perdere un seno, non me ne importava niente della mia femminilità, forse perché il mio seno è sempre stato piccolo e insignificante; avevo paura del cancro, della chemio, di tutto ciò che la malattia ti costringe ad affrontare, avevo paura per quello che avrebbe significato per mio marito e i miei figli. Avevo paura di non arrivare ai 60 anni, come mia madre.
Ma cercavo di farmi coraggio, tanto che durante la visita dal chirurgo, il quale mi spiegava che avrebbero dovuto togliere la mammella per poi ricostruirla trovai la forza di chiedere di rifarmi il seno un po’ più grande del mio e il prof., senza tanti peli sulla lingua mi disse: “ per forza signora sarà più grande, l’espansore più piccolo che abbiamo è sempre più grande del suo seno”.
Avrei dovuto prendermela? No di certo, mi venne da ridere, anzi: il cancro cercava di sconfiggere me ed io cercavo di prendermi una rivincita su di lui “aggiustando”quel seno piccolino che mi aveva sempre messo in difficoltà.
Andai in reparto a mettermi in lista d’attesa per l’intervento. Ho aspettato 36 giorni.
Pensavo sarebbero stati terribili e invece no, stranamente. Ero in pensione da pochi mesi, Natale si avvicinava ed io ero finalmente padrona del mio tempo. Ho scelto con più cura i regali per i miei figli, per mio marito, per gli amici. Avevo timore che potessero essere gli ultimi? Avrebbe potuto essere, con il cancro non si scherza, non te lo permette.
Se dicessi che quei giorni d’attesa sono stati terribili mentirei, certo ogni tanto mi assaliva la paura, anzi il terrore di morire, ma soprattutto di soffrire e di far soffrire.
La fede mi ha aiutato. Ho pregato come avevo già pregato tanto quando la stessa malattia aveva colpito i miei genitori. Non c’è stata allora la risposta che speravo, ma io ho continuato a pregare, questa volta senza aspettarmi niente e pregare mi dava pace.
Se poi l’ansia mi assaliva di notte, mi alzavo piano piano e scendevo in cucina a fare qualcosa; una volta preparai quasi tutti i pacchetti dei regali, mentre la mia gattina giocava con i nastri e i fiocchi, li buttava a terra e li rincorreva. Quella volta l’ansia si sciolse così, ridendo a vederla giocare; poi tornai a letto e mi addormentai.
Sono uscita dall’ospedale la vigilia di Natale con il sacchetto del drenaggio in una mano, come una borsetta, e così appaio nelle foto del giorno dopo che facciamo tutti gli anni mentre scartiamo i regali sotto l’albero. Ho il viso un po’ sfatto, ma sono a casa, con i miei e, nella sfortuna, ho avuto fortuna: non ho dovuto affrontare la chemio, il mio grande incubo.
Sono passati tre anni da quel triste ottobre che, da neo pensionata, avrebbe dovuto essere quasi l’inizio di una nuova vita. E, tutto sommato, anche se per altri motivi, mi è proprio parso di essere rinata. Ho cominciato a fare cose che non avevo mai fatto come imparare a nuotare e addirittura a ballare. Mi sembra quasi che non sia successo mai niente, difficilmente ci penso, anche se tutte le mattine o le sere o comunque quando mi guardo allo specchio il mio nuovo seno mi ricorda che qualcosa c’è stato, qualcosa di grosso.
La paura è sempre lì, in agguato, nascosta, e basta poco, pochissimo perché l’ansia ritorni. Allora cerco di farmi forza, cerco di respingere l’idea che il cancro potrebbe ritornare, cerco di pensare che avrò ancora davanti a me tanti giorni in cui potrò sedermi al tavolino di un bar con mio marito, con un’amica, da sola a gustarmi il mio adorato cappuccino con brioche. E intanto incrocio le dita.