Come un sogno

"Dal momento in cui mi viene dato l’appuntamento, al momento in cui vengo convocata, vivo le ore come dissociata da me stessa, come se fossi ancora dentro il sogno, incredula, non accettando il ruolo da protagonista che la vita mi stava dando..." di Ida Murru

I cambiamenti emozionali avvenuti in me nell’affrontare il percorso della malattia oncologica, sono stati diversi, a seconda del momento in cui mi trovavo a vivere la situazione.

Tutto è cominciato con un sogno, e come un sogno ho vissuto questo mio cammino. Ho sognato di avere un nodulo al seno. Mi sveglio e una mano virtuale prende la mia mano destra e me la posa sulla mammella sinistra. Sorpresa: non un nodulo, ma un’alterazione del tessuto cutaneo. Segue l’autopalpazione bilaterale. Allarmata telefono al ginecologo di mia fiducia. Costui immediatamente mi fissa un appuntamento. Durante la palpazione osservo il suo viso, cercando di cogliere qualche espressione mimica che mi possa far capire quale possa essere la diagnosi futura. Il professionista ha l’espressione seria di sempre. Con tono rassicurante mi dice che non è niente, ma è bene che mi rechi al centro oncologico (C.S.P.O.).

Dal momento in cui mi viene dato l’appuntamento, al momento in cui vengo convocata, vivo le ore come dissociata da me stessa, come se fossi ancora dentro il sogno, incredula, non accettando il ruolo da protagonista che la vita mi stava dando.

Il trascorrere dei giorni non mi rassicurava, i miei pensieri non erano ottimisti. Arriva il giorno dell’appuntamento: tutto avviene molto velocemente, visita, ecografia, aspirazione del nodulo, ecc. e io non riesco a percepire, ma sento solo il mio cuore che batte.

Un medico mi dice che probabilmente dovrò fare delle terapie, ma senza nominare la patologia. Con un filo di voce, chiedo qual è il nome del tumore; mi viene risposto “carcinoma”. Questo era il verdetto da me immaginato fin dal primo momento, ma la conferma dello specialista, mi aveva inchiodato nella mente la parola “cancro”. Quella che era stata la mia paura, si stava concretizzando nella mia mente; la parola si ripeteva all’infinito. Tutto in me rifiutava questa patologia. Com’era possibile, in me nessun sintomo era evidente, e il mio fisico era in piena forma. Quante volte ho sentito ripetere giustamente la necessità della prevenzione. In quel momento ho capito quanto questa sia necessaria, essendo il cancro una malattia subdola perché spesse volte non dà segni di nessun genere.

Mi si prospetta l’intervento chirurgico. Ho pianto? Non me lo ricordo, forse sì, forse no. So che la mia mente era occupata da tantissimi pensieri: come avrei affrontato la cosa, l’organizzazione logistica della casa. La memoria più viva risale alla mattina precedente l’intervento chirurgico; il chirurgo mi segna dei punti con la matita dermografica; inconsapevolmente ma in maniera molto decisiva, la sera, elimino questi segni con la doccia: la mente continua a rifiutare. Penso: ha superato mia sorella, devo superare anch’io. Era un imperativo.

Durante l’intervento ero stata svegliata, avverto una forte tachicardia, vedo camici verdi intorno a me. È un attimo, la mia coscienza scompare nuovamente (dove?). La quadrantectomia procede.

I giorni si susseguono con le visite degli amici, dei colleghi; ricevo fiori, dolci, affetto. Segue la convalescenza e la radioterapia, dandomi gli appuntamenti sempre sulla sera tardi; venivo accompagnata alla struttura sanitaria da bei giovani, sempre diversi. Ciò aveva destato la malizia degli altri malati.    

Da quel momento erano passati dodici anni, quando, in procinto di partire per la montagna, durante la notte mi sveglia un’abbondante emorragia uterina. Questa volta l’iter è più lungo. Ciò che mi ha più stressato psicologicamente, è stato dover saltare da una struttura sanitaria all’altra per poter completare attraverso le analisi e i vari accertamenti, la mia diagnosi, arrivando all’intervento psicologicamente distrutta. Qualche giorno prima della laparotomia, mi vedo in sogno bambina di dieci anni con il viso luminoso e sorridendo dico a me stessa: “voglio vivere”.

Il dolore fisico è forte, ma, seguendo i suggerimenti del chirurgo, il giorno stesso della dimissione, vado a fare una passeggiata, dirigendomi verso un giardino. L’azzurro del cielo, il tepore del sole che mi avvolge, i bambini che rincorrono una palla, il sorriso di una persona che incontro, tutto mi fa riassaporare la gioia di vivere pienamente la vita.