Il dolore canta

"Arrivò il giorno del ritorno a casa. Casa-soffitta. Presi a ripercorrere i numerosi scalini del palazzo. Uno via uno, con pazienza dolce. Riconciliarmi dovevo con gli impegni e i disagi domestici, con la mia attività di scrittrice e con la vita. La vita in stato avanzato è ricca come un museo, è preziosa. Guai a distarsi da lei. Dovevo infine ritrovare il sorriso di un tempo verso una particolare figura, l’amica della salvezza..." di Alberta Bigagli

 

Fu dapprima un canto urlato, per una forte e violenta gastroenterite. Fu poi un canto roco e di sgomento. Si scarnificavano le membra, si gonfiava l’involucro della pelle, si spaccavano i capillari. Un canto di rinuncia, di abulia. Qualcuno mi fu da subito accanto. Sentivo i buoni massaggi alle gambe ma l’anima mia si ritraeva. Vissi per un po’ fuori di me stessa.

Poi venne l’ospedale, venne lo squarcio al ventre. Venne ad immergermi nella tempesta salutare il Dio Chirurgo. Vidi camici femminili curvi su me. Con aghi e con tubi e con bende io fui difesa dalla morte. La Dea Morte, che nessuno mai offese. Con lei ci parlavo io ogni tanto, notando appena il suo fantasma. Finì per essere un visitatore insieme agli altri, messo nell’ultima fila.

Lunga la storia, irte le difficoltà. Io che vissi le amicizie più forte di sempre e lei la morte, ormai sorriso lontano, che rientrò nella sua mitica attesa. Alacri intorno a me gli operatori, gli intimi, i visitanti. Ebbi ancora lunghi giorni in collina, altro istituto, per reimparare a muovermi. Ebbi un rapporto nuovo con il ventre mio. Capii i suoi bisogni alterati e non lo maledissi mai.

Arrivò il giorno del ritorno a casa. Casa-soffitta. Presi a ripercorrere i numerosi scalini del palazzo. Uno via uno, con pazienza dolce. Riconciliarmi dovevo con gli impegni e i disagi domestici, con la mia attività di scrittrice e con la vita. La vita in stato avanzato è ricca come un museo, è preziosa. Guai a distarsi da lei. Dovevo infine ritrovare il sorriso di un tempo verso una particolare figura, l’amica della salvezza.

Tollerai i sopraggiunti, cattivi sventramenti. Non serve far la guerra al destino né odiare i propri organi. Il Dio Chirurgo fu sempre pronto agli incontri con me. Brusco di modi e ironico ma protettivo come un padre pensoso. Si toglieranno via i brutti rigonfiamenti, certo. Ma prima deve venire quella cosa che si chiama ricanalizzazione. Fu quasi bello per me abbandonarmi alla fiducia e all’attesa.

Ma un piccolo disturbo ignorato si rivelò segno e segnale di veleno ulteriore. Due i cancri questa volta, in zone gentili. Il centro delle mie ampie, rosate mammelle. Il tratto mio più caratteristico. Le mammelle mi hanno fatto sentire madre da sempre anche se rimasta senza figli. Spazzato via il loro culmine, ma solo quello, essendo stato il lavoro di tipo gentile. Piango ancora di tenerezza pensando al fare cortese di chi impugnò quei ferri.

Questa volta aprendo la finestra al risveglio del primo mattino a casa, mi sono sentita candida dentro. Chissà come tanto veleno si era formato. Forse voleva lui stesso uscirsene. Forse anche il male soffre nel far danno. Lui, componente della vita. Presi a guardarmi nello specchio solo dopo vari giorni. Vari giorni trascorsi dal solito gesto del levare i punti, il gesto della scucitura.

Le gonne continuavano a starmi strette e storte per i suddetti sventramenti, ma i miei incontri con gli altri, privati e diciamo ufficiali, continuarono e si intensificarono. Soprattutto quelli appartenenti ai miei, e solo miei in quanto frutto della mia passata e inventata ricerca, “Incontri di Linguaggio Espressivo”. Il Miracolo fu questo: mentre la mia sensibilità si era acuita, io riuscivo, mi sembrò, più tollerante. Mi sentivo il viso più accogliente.

Fu nei primi tempi meno vincente la mia memoria, la mia buona memoria, ma di poco. Ed io ho valorizzato la non poca parte rimasta, in attesa dei recuperi dovuti a buona volontà. Un problema furono le mie vene, tipiche della pelle di colore latteo. Poco vistose com’erano, quando si dovette realizzare la mia quarta operazione chirurgica, corrispondente al terzo taglio in croce del mio pancino, non riuscivano ad addormentarmi.

Soffrii tanto che mi svegliai nervosa e gridando “basta, basta!”. Chiedo perdono a coloro che mi erano accanto in quel momento. Portai con me, quest’ultima volta, tutta la simpatia possibile per gli infermieri, i malati altri, gli amici, tanti, che si erano fatti vivi, spesso o raramente. Il colore nero si è allontanato dalla pelle del mio corpo nascosto, la vita si è normalizzata. Dalla fine del gennaio 2005 si era arrivati alla fine dell’estate 2006. Cominciò, lentissimo, anche il recupero delle forze.

Due anni dunque per passare da: incendio, brace, cenere calda, pietra da focolare. L’acqua è riapparsa, quella che non si vede e non bagna. L’acqua che intorno e dentro ci scorre. L’acqua che taglia l’aria, che disseta la terra, l’acqua che sa di dover fronteggiare il fuoco. Dalla linea tesa del loro contendere, della loro lotta, il possibile vivere ecco scaturisce. Questa acqua io sono tornata a consumare e a voi la offro. Un bicchiere per me, un bicchiere per te, un bicchiere per il viandante.