La fine dell'inverno

"Ci guardammo negli occhi solo per un istante, sapendo che quella prima sera insieme sarebbe stata anche la sera del nostro addio. Non avevamo mai parlato apertamente di quello che mi era successo..." di Alice Bianchi

 

Non c’è medicina che guarisca quel che non guarisce la felicità.

Gabriel Garcia Marquez

 

Me lo ricordo come se fosse ieri. Passeggiavamo per le vie di Como mano nella mano, per la prima volta. Era una sera fredda d’inverno, una di quelle in cui le città si preparano al Natale. E le luci colorate nella mia fantasia erano lì per illuminare i nostri passi.

Ci incamminammo per una stradina stretta e buia, fino a sbucare sul lungo lago illuminato a festa.

Guardalo bene, ti mancherà il lago! Ruppi il silenzio, ma senza alzare lo sguardo dall’acqua.

Sì, credo di sì. - e poi mi strinse a sé - Mi mancherai tu.

Quando sarai dall’altra parte del mondo non avrai tempo di pensare a me, ma questa frase non riuscii a pronunciarla.

Ci guardammo negli occhi solo per un istante, sapendo che quella prima sera insieme sarebbe stata anche la sera del nostro addio. Non avevamo mai parlato apertamente di quello che mi era successo.

Mi tremava la voce quando sono entrato nella tua stanza la prima volta, quando dovevo farti firmare il consenso per l’operazione, mi confessò ad un tratto.

Era stato bravo allora, non me ne ero accorta. E all’inizio non avevo nemmeno capito che fosse lui il medico. Avevamo cominciato subito a chiacchierare … e poi era così giovane. Non ce l’ho fatta a darti del “lei”, gli dissi.

Ricordo come mi aveva spiegato i tre esiti possibili dell’intervento… e quando penso al terzo, la mastectomia, mi vengono ancora i brividi.

Non è stato facile farti un quadro completo della situazione. Dentro di me speravo che fossero tutti discorsi inutili, un’inutile prassi da seguire… Sembrava che le parole gli morissero in bocca.

 

E in quell’attimo ripercorsi con la mente quei giorni d’estate, quando per caso mi ero accorta che nel mio corpo c’era qualcosa di strano. Ma io, ottimista com’ero, avevo pensato a un’infiammazione del muscolo pettorale. Troppa ginnastica forse.

Poi però aveva vinto la mamma. Ed era iniziata la trafila delle visite, le processioni in ospedale per esami d’accertamento.

Finché esito dopo esito si era giunti al verdetto: cellule tumorali maligne.

A me, a ventiquattro anni, che scoppiavo di energia e di salute, supersportiva, mai bevuto, mai fumato, solo cibi sani… a me doveva capitare?

Non avevo avuto il tempo di pensare a tutto questo perché nel giro di pochi giorni mi ero ritrovata in ospedale, pronta per essere operata.

Solo dopo, ripensando a tutte quelle visite in cliniche e ospedali, mi ero resa conto di essere stata fortunata ad aver trovato, nella mia città, dottori che fossero prima di tutto uomini. Avevo confrontato la freddezza e il disinteresse per il mio dramma da parte di un grosso nome di una clinica privata di Milano, con l’umanità e l’amicizia dello specialista che mi aveva seguita fin dal primo giorno, e che mi aveva salvata.

E poi era arrivato lui… Ogni volta che entrava nella mia stanza la illuminava.

Ogni volta che entravo nella tua stanza mi chiedevo perché fosse successo a te.

Anch’io me lo sono chiesta, ma solo dopo. Solo alla fine.

 

Avevo cercato di darmi una spiegazione razionale, come facevo sempre, una spiegazione scientifica. Familiarità si dice, predisposizione genetica.

Poi però avevo pensato a come la malattia avesse cambiato la mia vita, il mio modo di vedere le cose, i problemi. Avevo pensato a come avesse riunito la mia famiglia, facendo sparire quelle ostilità che ormai sembravano solo sciocchezze. Era paradossale pensare che passata la paura più grande, avessimo ritrovato tutti una serenità da tempo dimenticata. Non ci eravamo mai visti e parlati tanto come quando mi trovavo in ospedale.

 

Promettimi che sarai forte e che affronterai queste ultime chemioterapie come se fossi qui con te. Come potevo dirgli, ti prego non partire, non adesso.

Ci proverò, gli promisi, ma sapevo già che l’ospedale non sarebbe stato altro che un ospedale senza di lui… sarà triste non vederti spuntare accanto alla mia poltrona…

Dai, ancora due volte e poi è finita. E se chiudi gli occhi… io sarò lì con te - e mi sorrise.

Faceva freddo, camminavamo parlando piano, quasi a voler proteggere i nostri discorsi da una folla inesistente. Gli confessai le mie paure per il futuro, la mia incapacità di trovare la strada giusta da seguire. Quasi a volermi convincere che la difficoltà fosse solo quella di trovarla, la strada, ma dentro di me sapevo benissimo che il cammino si fa camminando, e ogni camminatore si costruisce il proprio cammino da solo, lentamente.

A volte sento semplicemente il desiderio di partire, di lasciare tutto…ma non so quello che sto cercando.

Devi solo seguire il tuo cuore per non pentirti delle tue scelte, mi disse. Finché ascolti il tuo cuore e fai di tutto per essere felice, sei tu a condurre il gioco con le regole che tu stessa ti sei data. Credi alla forza dei tuoi sogni e loro diverranno realtà.

Ho sempre cercato di essere felice… ho sempre cercato di trovare la felicità nascosta in ogni situazione, in ogni incontro. E continuo a pensare che la felicità aiuti a vivere, a sopravvivere a volte… Seguire il cuore, gli risposi, se seguissi il mio cuore in questo momento appoggerei le mie labbra sulle tue e… Non mi lasciò terminare la frase. Vidi suoi occhi brillare, mi strinse a sé, appoggiando le labbra sulla mia fronte gelida e mi diede un bacio, dolcemente.

Non voglio sconvolgere la tua vita… rompere il tuo equilibrio. Sono felice d’averti incontrata, non ho mai conosciuto una persona come te, con la tua forza, il tuo sorriso... ma io ho la mia strada davanti, e so che tu troverai presto la tua… E spezzò quel momento di debolezza.

Scambiammo solo poche parole dopo, prima di sentire il portone di casa che sbatteva dietro di me. Non dimenticherò mai questa serata.

Nemmeno io. Non dimenticherò mai il tuo viso, lo porterò con me ovunque sarò.

 

È passato un mese da quando lui è partito. Ed è ancora lontano, nemmeno oggi lo vedrò sbucare accanto alla mia poltrona. Le parole di quella sera riecheggiano dentro i miei pensieri mescolandosi ad immagini, luci, colori. Sento che sarò forte anche questa volta, l’ultima volta, mentre con gli occhi socchiusi aspetto che l’ultimo flaconcino si svuoti, goccia dopo goccia, e che l’infermiera mi tolga la flebo. L’ultima flebo.

 

L’inverno è finito, la natura si sveglia. La neve inizia a sgelarsi, a ingrossare i fiumi e il lago. I prati fioriscono. I capelli mi stanno ricrescendo. Biondi e ondulati come prima. Le giornate diventano più lunghe e tiepide. È bello passeggiare in riva al lago. Ho ripreso qualche chilo e il mio viso è tornato roseo e luminoso. Le anatre si lasciano cullare dalle onde, seguite dai loro piccoli in fila indiana. Ho tanti progetti per il futuro e mi sento di nuovo scoppiare di energia.

L’inverno è finito, me ne resta soltanto una lunga sottile cicatrice. E i miei occhi sorridono alle meraviglie della vita.

 

 

Ode alla Tetta
Avevo una volta un bel paio di tette

Non troppo grosse ma per me eran perfette

Le portavo ovunque anche senza sostegno

Che del reggiseno non avevan bisogno,

E se impachettate dentro una scollatura

Facevano sempre la loro bella figura.

Ma a poco più di vent’anni un brutto giorno m’accorsi

Che un ragno vorace m’aveva dato due morsi

Subito andai da un bravo dottore

Che in fretta operò per levare il tumore

Ritagliò via tutta la zona infetta

E alla fine fui salva con la mia mezza tetta.

 

Tutto andò bene, passarono gli anni

poi il ragno tornò a far nuovi danni

a destra ingordo il ragno mangiò

e col suo veleno l’altra tetta infettò.

Al bravo dottore per mandarlo via

Stavolta servì una mastectomia.

 

E ora che pure ‘sta battaglia è vinta

Mi trovo con una mezza e una tetta finta.

E se un poco mi rode perché erano belle

Alla fine m’importa d’aver salva la pelle.

Morale della storia- che spero sia finita,

posso rinunciare alle tette ma non alla vita.