Da sola con Erik

"Questa malattia mi ha portato a subire due interventi, la chemioterapia, la terapia ormonale e la radioterapia. Se mi guardo indietro non ho ricordi dolorosi: tanti disagi ma anche tante persone che mi hanno sostenuto con affetto..." di Laura Malquori

Pratico da venti anni il buddismo e la mia vita è stata piena di difficoltà, esperienze, dolori e gioie di tutti i tipi. Da qualche anno mi sentivo sempre più stanca e ai miei occhi, come anche agli occhi degli altri, era assolutamente legittimo: il figlio tormentato, un difficilissimo rapporto con il suo babbo, il lavoro sempre precario e molto impegnativo, mio fratello malato e i miei genitori in qualche in modo da sostenere… ero stanca nel senso che quando mi alzavo la mattina guardavo il letto desiderando di essere già alla sera per potermi di nuovo distendere. Mi sembrava di dover spargere con il contagocce l’energia che avevo per poterla dividere tra tutte le cose che mi impegnavano. Avevo nella testa un disco incantato che ripeteva: sono stanca, sono stanca…

L’anno scorso poi, sembrava l’apoteosi: le cose avevano preso una piega tale che fronteggiavo il panico soltanto con le mie preghiere e non sempre mi riusciva.

Nel momento in cui le cose hanno cominciato a dare segni di cambiamento vero, io mi sentivo come un treno in corsa che contava le ore di sonno per riuscire a sopravvivere.

A novembre, dopo aver fatto un consueto esame di controllo, la mammografia, mi richiamano per ulteriori accertamenti. Torno dopo pochi giorni e mi rifanno tre radiografie, una ecografia e la dottoressa mi dice di avere una visione poco chiara e quindi di fissare il controllo successivo invece che dopo un anno, dopo soli sei mesi. Mi saluta ma, mentre apro la porta per uscire, mi richiama dicendomi: “guardi, anche se sicuramente non sarà niente di grave, mi sento più tranquilla se facciamo una biopsia”. Ok. Si fissa per il 23 dicembre. Io, a dire il vero, rimango tranquilla e non mi preoccupo. A gennaio il risultato: lesione tumorale. Ma io continuo a rimanere tranquilla, totalmente priva di paura e assolutamente tranquilla.

Quindi la mia reazione alla notizia è stata, visto come mi ritrovavo sopraffatta dalla stanchezza, arrivata ormai ai massimi livelli, di pensare quasi sollevata: adesso mi riposo!

Le cose più gravi si stavano comunque sistemando, stavo realizzando tante cose e questa vicenda aveva ai miei occhi proprio il sapore di un mare che dopo tante tempeste si rifà tranquillo.

Comunque considerare una malattia come l’occasione di tranquillità mi sembrava sinceramente una operazione molto stupida e riflettendo, anche in seguito alle parole di una persona alla quale avevo chiesto un consiglio sulla fede, mi sono resa conto che effettivamente c’era qualcosa in me di molto piccolo, una piega, una mancanza di comprensione se le mie battaglie mi avevano stancato fino a questo punto.

In una scrittura buddista “Il prolungamento della vita” c’è scritto: “se il più grande principe della terra di Jambudvipa morisse da bambino, sarebbe meno importante di un filo d’erba. Anche un uomo dalla saggezza splendente come il sole, se morisse giovane varrebbe meno di un cane vivo. Affrettati ad accumulare il tesoro della fede e sconfiggi velocemente la tua malattia”.

Allora mi sono sentita molto piccola, non tanto di fronte al problema in sé, quanto di fronte alla mia stessa vita: se non mi ponevo il problema di completare la mia missione e di arrivare fino in fondo a che serviva tutto il resto? E che vuol dire “completare la propria missione”? Ho iniziato a recitare con uno scopo chiaro: far sì che questa malattia diventasse l’evento fortunato da cui doveva emergere valore e comprensione. Non è sufficiente guarire se la guarigione non fa cambiare qualcosa di profondo. Allora ho iniziato a pregare con questo desiderio: capire fino in fondo che il tesoro del cuore crea il valore più importante di tutti (più importante del tesoro del corpo - la salute - e di quello del forziere - la tranquillità economica).

Nel buddismo c’è un principio che è quello della simultaneità di causa ed effetto, il fatto stesso di nutrire un sincero desiderio di questo tipo - è un bellissimo desiderio! - dà la stessa gioia dell’averlo realizzato, infatti nel momento in cui me lo sono dichiarato ho compreso quanto venti anni di pratica mi avessero “ben educata” a reagire agli eventi in modo corretto. E per corretto intendo in modo utile e non distruttivo.

Questa malattia mi ha portato a subire due interventi, la chemioterapia, la terapia ormonale e la radioterapia. Se mi guardo indietro non ho ricordi dolorosi: tanti disagi ma anche tante persone che mi hanno sostenuto con affetto, a cominciare da medici, infermieri, amici, la mia famiglia, i compagni di fede che hanno sempre pregato con me e per me. Alla fine i ricordi che rimangono sono quelli dell’affetto e del calore che ho sentito da parte di tutti.

Tutte queste vicende mi hanno portato a un modo diverso di vivere: con meno senso del dovere e più sincerità, nel senso di non mettere distanza tra i miei desideri e la mia vita più profonda. Ho pregato proprio per riavvicinare la mia vita al significato fondamentale dell’esistenza.

Lo dimostrano le tante cose che sono avvenute in questo periodo.

Una fra le tante: io da due anni vivo sola con Erik, il mio cane, e sono sempre stata bene, non ho mai sentito il bisogno di vivere con qualcuno. Questa vicenda tra convalescenze e malesseri di vario tipo invece mi ha fatto cambiare idea. Ma era un’impresa difficile da realizzare, visto che non avevo nemmeno una stanza a disposizione. Ma siccome la realtà supera sempre l’immaginazione, una collega di lavoro aveva bisogno di un posto dove stare ed è venuta a con me: voleva dormire rigorosamente sul divano, non voleva una stanza per sé, aveva pochissimi vestiti quindi non ha avuto bisogno di mobili o armadi suoi, rigovernava sempre e rigorosamente lei, puliva il giardino, andava fuori a comprare tutto quello di cui avevo bisogno e inoltre mi pagava.

Adesso sono tornata a vivere da sola, ogni sei mesi i controlli, ogni sei mesi comunque faccio i conti con la morte. Nel senso che non mi voglio dimenticare che la vita è qualcosa da conquistare, che non va mai data per scontata, che non va mai buttata via e quindi va vissuta con un grande senso di speranza che deve conquistare e influenzare tutti coloro che ti sono intorno.

Quando sento la morte più vicina, allora mi immagino di parlare con mio figlio l’ultima volta e di lasciargli in eredità un grande amore per la vita e il coraggio di vincere sulle più grandi paure.

Anche i miei genitori, che prima mi davano il pensiero di vederli invecchiare e la sensazione di lontananza di chi poteva pensare a me, adesso mi ispirano una grande tenerezza: il loro essere bisognosi del mio aiuto e della mia presenza mi rende felice per poter avere l’occasione di restituire, con grande senso di gratitudine, tutto ciò che loro hanno dato a me.

Insomma, non posso dire alla fine di questa vicenda, perché forse questa vicenda non finirà mai, ma grazie a questa malattia ho trovato un grande senso della vita.

Tesoro che mi accompagnerà fino alla fine, in qualsiasi momento questa fine dovesse arrivare.