Le fate buone
"Si perdeva un po’ di tempo per prepararsi: doveva prima di tutto togliersi di dosso tutte le preoccupazioni, spogliarsi delle ansie, guardare lontano e assicurarsi che nessuno per un po’ le si sarebbe avvicinato, magari tornando all’improvviso e rimesso in moto tutta la giostra. Voleva solo parlare di sè in fondo, tuffarsi e nuotare nei suoi pensieri superficiali o profondi che fossero, leggeri, allegri o tristi, era solo lei che decideva quali fare entrare..." di Giuliana Bongianni
Il nonno era a posto, la casa sistemata (non c’era molto da fare con il nipotino in vacanza) le piante annaffiate, tutto in ordine o quasi e un grande silenzio: poteva prendersi cura della sua cara solitudine e farsi cullare dai suoi pensieri.
Era dolce impegnarsi in visite al passato, trovare ricordi nuovi e scrivere racconti che amava farsi, con o senza penna.
Era per sé che scriveva e raccontava le briciole di ricordi che riusciva a trovare, quasi certamente nessun altro sarebbe stato invitato a quella festa.
Sapeva bene che alcune immagini avrebbero aumentato la sua malinconia ma questa voglia di guardare indietro, di scappare di corsa dal presente, era la piccola ricompensa che si regalava, un premio o una vendetta contro la solitudine vera che provava quando la casa era piena di voci e lei correva di qua e di là a soddisfare tutte le richieste, le precedeva perfino nella vana speranza che tutti fossero, alla fine, contenti di lei.
Le piaceva raccontarsi piccole schegge che arrivavano dal passato, anche se l’incertezza del tempo a disposizione le metteva ansia e una certa fretta che non doveva invece esserci quando apriva quella porta: doveva sapere di avere tempo, molto tempo davanti, come quando si accingeva a fare un lavoro di ricamo o a maglia tanti anni addietro.
Ci voleva tempo per organizzare e impostare il lavoro, se non c’era questa certezza, meglio non cominciare nemmeno.
Era necessario trovare calma e spazio, era come aprire una finestra e vedere un prato verde davanti, senza confini o stecconate o recinzioni che l’avrebbero limitata e costretta a tornare indietro.
La nostalgia che sentiva aveva un dolce sapore e la solitudine l’aiutava a tuffarsi dentro, curare la parte di sè che le piaceva di più: uscire dalla sua vita, allontanarsi un po’ e cominciare a volare nel racconto.
Si perdeva un po’ di tempo per prepararsi: doveva prima di tutto togliersi di dosso tutte le preoccupazioni, spogliarsi delle ansie, guardare lontano e assicurarsi che nessuno per un po’ le si sarebbe avvicinato, magari tornando all’improvviso e rimesso in moto tutta la giostra.
Voleva solo parlare di sè in fondo, tuffarsi e nuotare nei suoi pensieri superficiali o profondi che fossero, leggeri, allegri o tristi, era solo lei che decideva quali fare entrare.
Ormai sapeva quali pone aprire e con un po’ di abilità acquisita, sapeva entrare ed uscire da questo mondo fatto di ricordi ed emozioni.
La malinconia che sentiva, la voglia di stare sola, di stare in spazi sicuri e sempre più piccoli aveva un nome anche se lei non la chiamava così.
Anche la poca voglia di uscire aveva lo stesso nome.
Andava fuori solo quando non aveva più scuse per non farlo, dopo che aveva esaurito tutti gli argomenti, tutti i forse e i no e alla fine, senza sapere più a cosa aggrapparsi, era costretta a darsi il permesso.
Anche questa infinita timidezza, la voglia di essere invisibile aveva un nome, ma preferiva non pronunciarlo.
Non ignorava però questa fragilità, l’aveva conosciuta e accettata da tempo.
Le era arrivata dopo l’ultimo viaggio fatto nella malattia.
Era andata e tornata tante volte da quel mondo, a volte all’improvviso senza bagaglio, a volte per un ricovero programmato.
A volte per distruggere il male che l’aveva colpita, a volte per rimediare in parte ai danni rimasti.
Era andata e tornata tante volte, conosceva bene la sensazione di tornare a casa dopo il ricovero.
Come sembrava tutto diverso, come si sentiva fuori posto fra le sue stanze, le cose che la circondavano avevano perso la loro quotidianità e sembravano ancora più belle, tutto aveva un altro sapore.
Conosceva bene come si usciva dall’ospedale, la prassi burocratica, il saluto a tutti con la promessa di risentirsi, il lasciare disfatto con cura il letto, l’attenzione di non dimenticare niente per assecondare la buona sorte, esorcizzare il male e chiudere quell’esperienza.
Forse era stata fortunata a trovare medici capaci e veloci ad intervenire, forse era stata aiutata e assistita dal Cielo, in realtà avevano riaccomodato quasi tutto e lei era sempre tornata a casa quasi intera, piena di energia per ripartire, con una gran voglia di dimenticare, di buttare tutto dietro le spalle sperando che ignorandoli, i dispiaceri per le cicatrici visibili e non, se ne sarebbero andati via.
Dall’ultimo viaggio però non era tornata, era rientrata in casa con la borsa delle cose da lavare, con la tazza e le posate come sempre, ma una parte di lei non c’era.
Forse i suoi stavano ancora aspettando il suo ritorno, oppure no, meno combattiva e più fragile e docile come era, tutto sommato rompeva meno.
Ci aveva messo un po’ a realizzare il suo problema, all’inizio negato, ignorato e sempre nascosto.
Per pudore, per timidezza o solo per autodifesa aveva sempre tenuto nascosto il suo disagio.
Sapeva che chi le stava intorno non aveva la sensibilità di capire e prima o poi l’avrebbero potuta ferire parlandole con superficialità e facendo ancora più danni.
Erano tutti ben ancorati alla terra, loro, ai loro problemi reali.
Non avevano nessuna voglia di porsi tanti problemi, mettersi qualche dubbio chiedendosi tanti perchè.
All’inizio non sembrava neppure tanto grave la cosa.
Avvertiva che qualche filo si era rotto, che era sempre più difficile trovare il lato bello della vita, lo sguardo alle cose del mondo e del suo piccolo mondo famigliare le procuravano delusioni continue e senza entusiasmo, passione e speranza avvertiva tutta la fatica per andare avanti.
Era tutta un’attesa, attesa di buone notizie, di decisioni felicemente prese ed azzeccate, qualcosa di buono che le venisse incontro.
Non si era rassegnata subito; aveva lottato con le cose, si era fatta promesse di lieto fine, rassicurata che le cose sarebbero maturate ed aggiustate ed aveva inventato per sé delle belle favole, che si raccontava ogni mattina per incoraggiarsi ad affrontare la giornata.
Ma dopo un po’ non ascoltava più questi futuri preconfezionati dalla sua fantasia e, come una bambina ormai cresciuta, semplicemente non ci credeva più.
Vedeva le cose come erano, come se avesse finalmente indossato un paio di occhiali, vedeva che la strada che aveva imboccato verso il suo futuro era solo una monotona fila di giorni senza sole.
Allora in punta di piedi, senza disturbare nessuno, aveva capito di avere bisogno di aiuto ed aveva trovato chi l’ascoltava, incoraggiava ed aiutava: lei le chiamava le Fate buone di Villa delle Rose che, con la bacchetta magica, come nelle fiabe, le avevano fatto un incantesimo.
Lei che non aveva voglia di parlare, e non sapeva più parlare, si era messa a disegnare per raccontare, ad ascoltare musica per trovare emozioni, a rincorrere i ricordi e a scrivere per non dimenticare.
Era questo il prezioso dono che le avevano fatto le Fate e anche se si sentiva un po’ orfana ogni volta che finivano i gruppi di lavoro insieme a loro, le rimaneva sempre la capacità di aprire quella porta e trovare qualcosa di dimenticato in un angolo, dentro di sé.
Anche se la sua fragilità e malinconia non erano diminuite, aveva imparato a farsi tenere compagnia da loro, a considerarli doni e non difetti o problemi.
Il viaggio nel mondo della malattia le aveva regalato questo, ascoltarne le sue storie non era stato né facile né indolore.
Ma era stato certamente utile, per chi aveva cuore ed orecchie per fermarsi ad ascoltare.
All’inizio aveva fatto un po’ male tuffarsi nei racconti e condividere con altri storie tristi di ferite, di battaglie combattute e a volte perse.
Era stato come un vaccino però, magari all’inizio bruciava, ma poi proteggeva.
Questo avrebbe protetto dall’indifferenza e dal rifiuto che si prova spesso verso chi dalle tempeste è stato toccato.
Su tante vite si era abbattuto un tornado e non aveva lasciato niente uguale a prima, ascoltarne i racconti alla fine qualcosa aveva insegnato.
Insegnava a dare valore alle cose, a coltivare e nutrire e far crescere quelle importanti, potare e scartare quelle inutili.
Aveva insegnato a ringraziare per la propria salute e per quella delle persone care ed a non dimenticare mai la preziosità di questo dono.